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C’è chi ammette l’errore senza sorridere e chi dice sempre la verità fissandosi i piedi. 

Sebbene venisse ribadito il miracolo ognuno porta con sé la propria antica sconfitta.

D’ombra era il passo e malsicura speme.

Si stabilisce un indizio quando al gioco la colpa non si accompagna. 

Aspettiamo proposte ed esageriamo nel chiederle.

Chi non tollera l’abbandono non ricorderà mai la giustificata bontà.

Eravamo caparbi e buoni, favorevoli a confusioni già note ed esigenti di stima e riguardi.

Il Principe e il pesce

Il Principe non aveva ancora capito eppure il verde pesce lo fissava da giorni pronunciando bolle simili a sotterfugi che egli interpretò come avvertimenti; continuarono a fissarsi senza regole e la loro grammatica era muta e circolare poiché l’uno ammoniva l’altro. Entrambi non temevano sciagure bensì vantaggi. Così divennero insegnanti silenziosi l’uno per l’altra e alla fine il Principe si precipitò al suo scrittoio ed il verde pesce, senza aprir bocca, rimase senza pronuncia. 
Si narra, qualcuno così disse, qualcun altro lo confermò. 

Il cigno Bizù

Aveva un piumaggio insolito il cigno Bizù.Mamma Marianna lo aveva chiamato così durante l’antica partita a “tre pulci” in cui fu battuta e sulla quale non si era più dibattuto negli anni a seguire.
Bizù nuotava sempre seguendo una traiettoria ondulata: mancavano due penne alla sua coda poiché l’untuosa ranocchia ne aveva sottratto alcune, implicando così svantaggi al suo timone.
Bizù conosceva tutto lo spettro dei colori come riflesso dei valori terrestri, ma solo su una virtù era imbattibile: il senso del perdono e l’istante in cui fosse necessario applicarlo. Tale dote l’aveva ereditata da suo padre, il biondo animale a quattro zampe giudicato e poi rincorso dalle sirene in difficoltà.
Bizù era leale e corretto, spigoloso e altruista: credeva in quel fitto impasto chiamato verde luna, il quale proteggeva solo i buoni e Bizù si convinceva che sotto tale influsso i saccenti divenissero prima spezie e poi dopo il quinto dispetto più nulla. Ecco Bizù seduto, con la pinna destra affusolata e sottile, nell’acqua. La pinna sinistra, invece, era assai piccola, tonda e lineare al piumaggio ma avversa alle raffinate torsioni utili per la pesca: per la destra, di rappresentanza, non vi erano rimproveri poiché tutti vi riconoscevano l’eredità della prozia Innocenza, un’abile ricercatrice.
Si persuase che fosse il primo della famiglia ad avere le qualità tipiche di chi nello squilibrio mantiene l’assetto mentre il resto del mondo trascina se stesso protestando.
Così scelse per sé e, con le spalle curve ed un sorriso a bocca chiusa, iniziò a cercarsi una compagna indistintamente pennuta.
Cominciò dallo spazio tra i rami e le foglie, lo stesso che si crea tra la linea e il punto.
Era felice. Stavolta era felice.

Del bello, il canone alato

Dama Dimidò

Dama Dimidò pianificava tragitti e coltivava gelsomini. Gesticolava quando aveva sonno e starnutiva dopo ogni vittoria. Beveva vino e acqua nello stesso bicchiere e in egual misura. Camminava con pacatezza e con la speranza di trovare sempre il giusto verso delle cose. Aveva bisogno di pace e di un cervo da inseguire, così lo disegnò e poi soffiò sul foglio.
Si narra, qualcuno così disse, qualcun altro lo confermò.

Esco dalla ciliegia

Eppure non era così impegnativo uscire dalla ciliegia, non volevo ammetterlo. Occorreva generosità, abilità e una copertina a righe verdi e bianche; con diligenza doveva succedere, era giusto così.
Avrei dimenticato tutti i difetti una volta uscita dalla ciliegia e a tutti avrei dimostrato il prestigio della verità, finalmente scoperta e così straordinaria della sua unicità.
Di nuovo vi avrei raccontato le buone maniere, fin ora così poco evidenti come chicchi di mais. Di nuovo vi avrei ricordato come si tiene tra le dita un rametto di fiori di mandorlo e di nuovo avrei tentato di rimuovere quella presuntuosa abitudine che ha negli orgogliosi il suo rifugio.
Ora superato il confine sono uscita e da una pianura aperta ed un orizzonte libero guardo dappertutto; così, abbandonato il pensiero primitivo che mi aveva trattenuto, ragiono: “Sono fuori dalla ciliegia e farò ancora centro”.

Lusinga

Autodifesa

Balenaldo

Balenaldo era lì, fermo e pronto per la riuscita.
Leggero, disincantato e senza furia. 
Fissò la lampada per pochi istanti, poi rincorse il pallino nascosto nel bicchiere, si bloccò di nuovo e scivolò a terra.
Si chiese come poteva essere possibile nel suo stato, ma reagì con disinvoltura poiché era felice. L’avrebbe incontrata.
Egli pensò che Bianca era perfetta perché si arrampicava sugli alberi e sui mobili quando nessuno la vedeva. La aspettava da mesi e finalmente l’avrebbe ammirata da seduta, davanti a una brioche. 
Si narra, qualcuno così disse, qualcun altro lo confermò.

Rapacemente

Giunsi fin lì con lo stomaco, mio malgrado, sazio del malcontento altrui.
La sorte mi donò un filtro, un concentrato incolore di un minuzioso speziale il quale era riuscito a sottrarlo a un branchetto di furetti manifestanti disprezzo e cupidigia; bevvi la preparazione con solerte impegno e capii così di non appartenere né a quelle rocce né a quei licheni e, per di più, compresi che qualora l’acqua avesse sopraffatto le ore del giorno la sua inattesa sovranità avrebbe prodotto spaesamento tra gli incostanti e i boriosi.
Allora risi come colui che ha conosciuto e compreso il puzzle degli eventi e così, saldo e motivato, non permisi a tumultuosi ricordi ed ad antico avverso fato di offuscare il mio piano di volo; di qui la visione si aprì in un ventaglio più ampio e nitido di linee di luce.
Fu realtà e non un sogno il sentire che tutto era racchiuso nell’abbondanza dei cerchi e che, entro tali archi, si dipanava nella volta celeste l’allegoria dell’esistenza, la distanza pittorica tra chi ama e chi perdona; nell’insieme lo spazio, diluito all’ora del tramonto, assegnò alle mie zampe il luogo della roccia ed alle mie ali la prospettiva di domanda. Come un viandante di fronte alla sfinge risolsi il quesito di cui speranza, spensieratezza ed amore furono le risposte, gli stessi solventi per cui il buono scioglie le macchie nere e il fumo i dubbi odorosi.
A terra restò niente, di giorno.
Di notte, un mare blu.
Su tutto la vita.

Fama

Vivus Visus